Lo straniero

A parte queste seccature non ero particolarmente infelice. Il vero problema, ancora una volta, era ammazzare il tempo. Ho finito per smettere del tutto di annoiarmi da quando ho imparato a ricordare. A volte mi mettevo a pensare alla mia stanza e, con la fantasia, partivo da un angolo per poi tornarvi elencando mentalmente tutto ciò che trovavo lungo il percorso. All’inizio finiva in fretta. Ma ogni volta che ricominciavo durava un po’ di più. Perché mi ricordavo di ogni mobile, e, per ciascuno di essi, di ogni oggetto che vi si trovava, e per ogni oggetto di tutti i particolari, e per i particolari stessi, un’incrostazione, una crepa o un bordo scheggiato, del colore o della consistenza. Al tempo stesso cercavo di non perdere il filo del mio inventario, di fare un elenco completo. Tanto che dopo qualche settimana riuscivo a passare ore intere semplicemente riepilogando il contenuto della mia stanza. E così, più riflettevo e più cose sconosciute e dimenticate tiravo fuori dalla mia memoria. Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi. Per certi versi, era un vantaggio.

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Il mondo alla fine del mondo

Il Finisterre era una barca dalle linee gentili. Avevo immaginato un cutter all’inglese, con varie vele al terzo e un conveniente numero di fiocchi, ma avevo davanti a me un’imbarcazione con una sola vela arrotolata attorno a un pennone e un controfiocco avvolto allo strallo.

Era dipinto di verde e tra le giunture del legname appariva il calafataggio, collocato da mani diligenti, senza sfilacciature. L’acqua trasparente del golfo lasciava vedere parte della chiglia, libera da scorie, e il capitano Nilssen mi invitò a salire a bordo.

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Il Ciclope

L’ultima sera viene una Tramontana dolce, profumata di assenzio, un vento da regata Che pulisce ii cielo da cima a fondo. Lo pulisce al punto che quando esco a vedere il tramonto l’orizzonte si mostra trasfigurato. Per la prima volta il Sole non si inabissa in mare ma dietro una linea di montagne che non avevo mai visto. La visibilità è di cento miglia almeno, e la Fatamorgana è lì, a portata di mano. A ovest, un susseguirsi di gobbe violacee, come di balena, nuota in un cielo liquido che ha il colore dei melone appena aperto. É già raro vedere la costa del Continente: questa sera l’occhio arriva alla sua colonna vertebrale.

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Don Giovanni – Royal Opera House

Martedì 8 Ottobre 2019 alle 19.45, il Don Giovanni di Mozart è stato trasmesso in diretta via satellite dalla Royal Opera House di Londra nei cinema di tutto il mondo.

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La voce delle case abbandonate

Le case abbandonate hanno qualcosa che si capisce subito che sono abbandonate, non è solo dall’edera che cerca di entrare, dalle finestre aperte o dai vetri rotti, non tanto dagli scuri con il buco del picchio, non dall’erba alta, dai rovi tutt’attorno e dagli alberi vicini che allungano i rami fino a toccarle; non dal muro screpolato che lascia intravedere sassi e mattoni come fosse lo scheletro, o dalla civetta che vola via dal tetto quando ti vede arrivare, né dalla fila di formiche scure che va avanti e indietro dal davanzale.

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Canne al vento

Grazia Deledda – Canne al vento

Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall`alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.

Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considera più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’lndia che lo chiudono dall’ alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.

ll servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall’altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rímpianto inutile. Meglio pensare all`avvenire e sperare nell’aiuto di Dio.

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La casa in collina

Alzai le spalle anche stavolta. Le alzavo sovente in quei giorni. Il finimondo sempre atteso era arrivato. Era chiaro che Torino tranquilla in distanza, la solitudine nei boschi, il frutteto, non avevano più senso. Eppure tutto continuava. Sorgeva il mattino, calava la sera, maturava la frutta. M’aveva preso una speranza, una curiosità affannosa: sopravvivere al crollo, fare in tempo a conoscere il mondo di dopo.

Alzavo le spalle ma bevevo le voci, Se qualche volta mi tappavo le orecchie, era perché sapevo bene, troppo bene, quel che avveniva e mi mancava il coraggio di guardarlo in piena faccia, La salvezza appariva questione di giorni, forse di ore, e si stava attaccati alla radio, si scrutava il cielo, ci si svegliava ogni mattina con un sussulto di speranza.

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Delitto/castigo – Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini

Delitto e Castigo, l’opera più letta e conosciuta di Dostoevskij, racconta il tormento di Rodiòn Romànovic Raskòl’nikov, un giovane poverissimo e strozzato dai debiti, che uccide una vecchia e meschina usuraia. Nel romanzo è evidente il conflitto interiore del protagonista, che crea in lui una scissione; ne viviamo i lucidi ragionamenti, in cui si rifiuta di provare rimorso, per dimostrare a se stesso di appartenere alla categoria di quelli che lui definisce i “napoleonici”, i grandi uomini, le menti superiori dalle idee rivoluzionarie, autorizzati a vivere e agire al di sopra della legge comune, perché tutte le loro azioni, anche quelle condannate dalla morale, hanno come fine ultimo il bene collettivo.

Tenta di convincersi che l’omicidio della vecchia usuraia, poiché ha liberato dal giogo molti poveri creditori e eliminato dalla faccia della terra un essere maligno, non solo non è condannabile e non dovrebbe procurargli alcun pentimento, ma costituisce la dimostrazione stessa della sua appartenenza ad una categoria superiore. Dall’altro lato, però, viviamo il lento affiorare in lui della consapevolezza di non riuscire a sfuggire ai sensi di colpa e al terrore di essere scoperto: deve rassegnarsi, alla fine, di essere non già un grande uomo, ma un “pidocchio”, e, come tale, di meritare una punizione.

Lo spettacolo

La scena, che di fatto non c’è, è aperta. Il suono lento di gocce che cadono accoglie lo spettatore in attesa dell’inizio della pièce. Quelle gocce cominciano a scandire il tempo e a scavare l’animo fino a quando tutto inizia e tutto avviene in un unico atto, di fila, d’un fiato, si accende un lungo reading in cui Sergio Rubini raccoglie a sé la maggior parte dei tantissimi ruoli del romanzo dostoevskiano. Regista e narratore, tesse e tiene le fila di quei tanti cappotti appesi e sospesi sul palco, conducendo e separando da sé Luigi Lo Cascio nel ruolo da protagonista dell’ex studente di legge Rodja Roskòl’nikov, reo di duplice omicidio. Le parole di Dostoevskij si accompagnano ai suoni che provengono dal retroscena aperto al pubblico, una bottega visibile, curata da G.U.P. Alcaro, da cui emergono in maniera forte e dirompente i colpi di accetta sferrati sulla vecchia usuraia così come le frustate nella scena del ricordo delle violenze sulla cavallina.

Su un palco che allo stesso tempo è Pietroburgo e le sue strade, osteria e commissariato, stanza da letto e luogo della mente, carico d’oggetti scenici, inamovibili o pendenti come spettri o spade di Damocle, e sconvolto da effetti luminosi e tecnici che plasmano da subito precise sfumature di stringente inquietudine, di lancinante tormento, Rubini veste con uguale, camaleontica intensità i panni di più personaggi (dal Narratore all’ubriacone Marmeladov, fino alla madre di Raskòl’nikov) e Luigi Lo Cascio, magistrale nei tempi, nei toni e nei gesti, quelli psicotici e deliranti del protagonista.

adattamento teatrale Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi
regia Sergio Rubini
scene Gregorio Botta
costumi Antonella D’Orsi
musiche Giuseppe Vadalà
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
luci Luca Barbato e Tommaso Toscano
regista collaboratore Gisella Gobbi
con Luigi Lo Cascio, Sergio Rubini, Francesco Bonomo, Francesca Pasquini
e con G.U.P. Alcaro
voci Federico Benvenuto, Simone Borrelli, Edoardo Coen e Alessandro Minati
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana

Con i piedi nel fango

La capacità di guardare in lontananza è una dote della politica di qualità. «L’avvenire appartiene ai non disillusi» recita una frase attribuita a Georges Sorel che, come puoi immaginare, non è uno dei miei autori di riferimento. La frase però è bellissima. Pensare senza rassegnazione alla possibilità di un mondo diverso e migliore, un mondo di dignità, uguaglianza, solidarietà, è un modo sano e giusto di collocare l’azione politica in un quadro più vasto. L’utopia sollecita la fantasia, il sogno. Che peraltro non è nulla di astratto: per la sinistra significa, detto in estrema sintesi, realizzare ciò che prescrive l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione, cioè «la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto libertà ed eguaglianza e impediscono lo sviluppo della persona e la partecipazione. E tuttavia lo sguardo lungo verso il futuro e la consapevolezza del passato devono illuminare il cammino del “qui e ora”, perché l’azione politica si nutre di singoli comportamenti quotidiani e di aggiustamenti di rotta. Anche in questo la parola approssimazione – avvicinarsi alla rotta giusta – torna utile e anzi preziosa. Diceva George Orwell che i pensatori della politica si dividono in due categorie: «Gli utopisti con la testa fra le nuvole e i realisti con i piedi nel fango». Posso conoscere l’obiettivo finale, ma non c’è una strada fissata in precedenza per raggiungerlo. E la strada è difficile, a percorrerla davvero ci si sporca, come chi cammina nel fango. La politica è un impegno qui e ora, oltre le chiacchiere e i proclami. E’ fare i conti con le cose per come sono davvero. E spesso non sono belle, lineari e pulite come le vorremmo. Ci si può inzaccherare, sì. Ma come si sporcano di fango gli stivali dei volontari che intervengono nelle alluvioni che ciclicamente investono porzioni del nostro territorio devastato dal dissesto idrogeologico. Bisogna state nel fango, a volte, per aiutare gli altri a uscirne. Oggi fare politica nel nostro Paese vuol dire molto spesso avere i piedi nel fango, in contesti difficili, dove la realtà sfugge a schemi ideologici troppo rigidi: può non piacere, ma se si vuole incidere davvero sulle cose per migliorarle, bisogna averne piena consapevolezza. Da sola l’alternativa della “testa fra le nuvole” non funziona.

Con i piedi nel fango – Gianrico Carofiglio

Direttissimo

«Quel treno, prendi?» «Quello.» La locomotiva era terribile sotto la tettoia fumigosa, sembrava un toro inferocito che scalpitasse per la smania di partire.

«Con questo treno viaggi?» mi chiedevano. Incuteva infatti paura, tanto frenetica era la tensione del vapore acqueo che filtrava dalle fessure sibilando. « Con questo» io risposi.

«E per dove? » Io dissi il nome. Non l’avevo pronunciato mai, neppure parlando con gli amici, per una specie di pudore. Il grande nome, il massimo, la destinazione favolosa. Di scriverlo qui non ho il coraggio.

Allora mi guardarono chi in un modo chi in un altro: con ira per la mia improntitudine, con scherno per la mia pazzia, con pietà per le mie illusioni. Qualcuno rise. D’un balzo fui nella vettura. Spalancai un finestrino, cercai nella folla volti amici. Non un cane.

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