Canne al vento

Grazia Deledda – Canne al vento

Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall`alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.

Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considera più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’lndia che lo chiudono dall’ alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.

ll servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall’altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rímpianto inutile. Meglio pensare all`avvenire e sperare nell’aiuto di Dio.

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La casa in collina

Alzai le spalle anche stavolta. Le alzavo sovente in quei giorni. Il finimondo sempre atteso era arrivato. Era chiaro che Torino tranquilla in distanza, la solitudine nei boschi, il frutteto, non avevano più senso. Eppure tutto continuava. Sorgeva il mattino, calava la sera, maturava la frutta. M’aveva preso una speranza, una curiosità affannosa: sopravvivere al crollo, fare in tempo a conoscere il mondo di dopo.

Alzavo le spalle ma bevevo le voci, Se qualche volta mi tappavo le orecchie, era perché sapevo bene, troppo bene, quel che avveniva e mi mancava il coraggio di guardarlo in piena faccia, La salvezza appariva questione di giorni, forse di ore, e si stava attaccati alla radio, si scrutava il cielo, ci si svegliava ogni mattina con un sussulto di speranza.

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Con i piedi nel fango

La capacità di guardare in lontananza è una dote della politica di qualità. «L’avvenire appartiene ai non disillusi» recita una frase attribuita a Georges Sorel che, come puoi immaginare, non è uno dei miei autori di riferimento. La frase però è bellissima. Pensare senza rassegnazione alla possibilità di un mondo diverso e migliore, un mondo di dignità, uguaglianza, solidarietà, è un modo sano e giusto di collocare l’azione politica in un quadro più vasto. L’utopia sollecita la fantasia, il sogno. Che peraltro non è nulla di astratto: per la sinistra significa, detto in estrema sintesi, realizzare ciò che prescrive l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione, cioè «la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto libertà ed eguaglianza e impediscono lo sviluppo della persona e la partecipazione. E tuttavia lo sguardo lungo verso il futuro e la consapevolezza del passato devono illuminare il cammino del “qui e ora”, perché l’azione politica si nutre di singoli comportamenti quotidiani e di aggiustamenti di rotta. Anche in questo la parola approssimazione – avvicinarsi alla rotta giusta – torna utile e anzi preziosa. Diceva George Orwell che i pensatori della politica si dividono in due categorie: «Gli utopisti con la testa fra le nuvole e i realisti con i piedi nel fango». Posso conoscere l’obiettivo finale, ma non c’è una strada fissata in precedenza per raggiungerlo. E la strada è difficile, a percorrerla davvero ci si sporca, come chi cammina nel fango. La politica è un impegno qui e ora, oltre le chiacchiere e i proclami. E’ fare i conti con le cose per come sono davvero. E spesso non sono belle, lineari e pulite come le vorremmo. Ci si può inzaccherare, sì. Ma come si sporcano di fango gli stivali dei volontari che intervengono nelle alluvioni che ciclicamente investono porzioni del nostro territorio devastato dal dissesto idrogeologico. Bisogna state nel fango, a volte, per aiutare gli altri a uscirne. Oggi fare politica nel nostro Paese vuol dire molto spesso avere i piedi nel fango, in contesti difficili, dove la realtà sfugge a schemi ideologici troppo rigidi: può non piacere, ma se si vuole incidere davvero sulle cose per migliorarle, bisogna averne piena consapevolezza. Da sola l’alternativa della “testa fra le nuvole” non funziona.

Con i piedi nel fango – Gianrico Carofiglio

Direttissimo

«Quel treno, prendi?» «Quello.» La locomotiva era terribile sotto la tettoia fumigosa, sembrava un toro inferocito che scalpitasse per la smania di partire.

«Con questo treno viaggi?» mi chiedevano. Incuteva infatti paura, tanto frenetica era la tensione del vapore acqueo che filtrava dalle fessure sibilando. « Con questo» io risposi.

«E per dove? » Io dissi il nome. Non l’avevo pronunciato mai, neppure parlando con gli amici, per una specie di pudore. Il grande nome, il massimo, la destinazione favolosa. Di scriverlo qui non ho il coraggio.

Allora mi guardarono chi in un modo chi in un altro: con ira per la mia improntitudine, con scherno per la mia pazzia, con pietà per le mie illusioni. Qualcuno rise. D’un balzo fui nella vettura. Spalancai un finestrino, cercai nella folla volti amici. Non un cane.

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I sette messaggeri

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.

Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.

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Dino Buzzati al Giro d’Italia

Per diciannove giorni, con stupore, li avevamo visti galoppare con la sola forza delle gambe in tutta la Penisola e poi ancora su e giù per i precipizi delle Alpi. Un centesimo di ciò che aveva fatto l’ultimo di loro ci avrebbe troncato anche vent’anni fa quando eravamo giovani, ci avrebbe fatto andare all’ospedale per un mese almeno. Che cosa restava adesso di questo lavoro spaventoso? Non aveva prodotto niente? Niente. Fatica dunque, sacrificata a una mania priva di senso?

Eppure, via via che questi uomini procedevano di città in città, le popolazioni – meraviglia! – lasciavano gli affari e le vanghe, balzavano dal letto, scendevano dai sommi casolari, facevano a piedi lunghissimi tragitti, aspettavano sotto al pioggia e sole per mattine intere, ed eccole là, le genti di tutta Italia, contadini, operai, lupi di mare, mamme, vecchi cadenti, paralitici, preti, mendicanti, ladri, schierati lungo quattromila chilometri, e non erano più gli stessi del giorno prima, un sentimento nuovo e potente li possedeva, ridevano, gridavano, per qualche istante dimenticavano le pene della vita, erano felici, positivamente, e ne possiamo fare qui regolare testimonianza.

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Il sentiero dei nidi di ragno

ItaloCalvino_IlSentieroDeiNidiDiRagnoPin è seduto sulla cresta della montagna, solo: rocce pelose d’arbusti scendono a picco ai suoi piedi, e s’aprono vallate, fin giù nel fondo dove scorrono neri fiumi. Lunghe nuvole salgono per i versanti e cancellano i paesi spersi e gli alberi. E successo un fatto irrimediabile, ormai: come quando ha rubato la pistola al marinaio, come quando ha abbandonato gli uomini dell’osteria, come quando è scappato dalla prigione. Non potrà più ritornare con gli uomini del distaccamento, non potrà mai combattere con loro.

È triste essere come lui, un bambino nel mondo dei grandi, sempre un bambino, trattato dai grandi come qualcosa di divertente e di noioso; e non poter usare quelle loro cose misteriose ed eccitanti, armi e donne, non potere far mai parte dei loro giochi. Ma Pin un giorno diventerà grande, e potrà essere cattivo con tutti, vendicarsi di quelli che non sono stati buoni con lui: Pin vorrebbe essere grande già adesso, o meglio, non grande, ma ammirato o temuto pur restando com’è, essere bambino e insieme capo dei grandi, per qualche impresa meravigliosa.

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Memorie di Adriano – Mi era noto ogni miglio delle nostre strade

MemorieDiAdrianoSu venti anni di potere, dodici li ho trascorsi senza fissa dimora. Ho abitato di volta in volta i palazzi dei mercanti in Asia, le oneste case greche, le belle ville munite di bagni e stufe dei residenti romani in Gallia, i tuguri, le fattorie. La tenda, quella leggera architettura di tela e di corde, era ancora l’abitazione che preferivo. Non meno varie la navi delle abitazioni; ebbi la mia, provvista di un ginnasio e d’una biblioteca, ma diffidavo troppo di qualsiasi forma di stabilità per legarmi a una dimora, anche se mobile: la barca di piacere d’un ricco siriano, i vascelli d’alto bordo della nostra flotta o il caicco d’un pescatore greco andavano per me egualmente bene. L’unica mia esigenza era la velocità e tutto ciò che la seconda i cavalli migliori, le vetture più molleggiate, i bagagli meno ingombranti, gli abiti, le suppellettili più adatte al clima. Ma la grande risorsa era, innanzi tutto, lo stato perfetto del corpo: una marcia forzata di venti leghe non era niente; una notte insonne la consideravo null’altro che un invito a pensare. Sono pochi gli uomini che amano viaggiare a lungo; è una frattura continua di tutte le abitudini, una smentita inflitta incessantemente a tutti i pregiudizi. Ma io facevo di tutto per non aver alcun pregiudizio, e pochissime abitudini. Leggi tutto “Memorie di Adriano – Mi era noto ogni miglio delle nostre strade”

Memorie di Adriano – Scegliere i capi

MemorieDiAdrianoNoi siamo funzionari dello Stato, non siamo Cesari. Aveva ragione quella postulante, che m’ero rifiutato un giorno di ascoltare fino alla fine, quando esclamò che se mi mancava il tempo per darle retta, mi mancava il tempo per regnare. Le scuse che le feci non erano solo formali. E, tuttavia, il tempo mi manca: più l’impero si estende, più i vari aspetti dell’autorità tendono a concentrarsi nelle mani del funzionario in capo; quest’ultimo oberato necessariamente deve scaricare su altre persone una parte dei suoi compiti; il suo genio consiste sempre più nel circondarsi di gente fidata. Il peggior crimine di Claudio e di Nerone fu di lasciare pigramente che i loro liberti o i loro schiavi s’impadronissero di queste funzioni di agenti, consiglieri, delegati del capo supremo.

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Il posto

IlPosto_AnnieErnauxFacevo i compiti, ascoltavo i dischi, leggevo, sempre in camera mia. Scendevo soltanto per mettermi a tavola. Mangiavamo senza parlare. In casa non ridevo mai. Facevo “dell’ironia”. É il periodo in cui tutto ciò che mi tocca da vicino mi è estraneo. Sto emigrando lentamente verso un mondo piccoloborghese, ammessa alle feste danzanti la cui unica condizione di accesso, tuttavia così difficile, consiste nel non essere sfigati. Tutto ciò che mi piaceva mi sembra ora paccchiano, Luis Mariano, i romanzi di Marie-Anne Desmarest, Daniel Gray, il rossetto e la bambola vinta alla fiera che sfoggia il suo vestitino di paillette sul mio letto. Persino le idee diffuse nell’ambiente da cui provengo mi paiono ridicole, dei pregiudizi, ad esempio, «la polizia, ce n’è ben bisogno» 0 «è la leva che rende uomini». L’universo, per me, si è capovolto.

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