Questa storia

Poiché se l’era promesso, Elizaveta Seller, vedova Zarubin, cercò per anni un circuito di diciotto curve, costruito nel nulla e probabilmente mai usato. Lo conosceva a memoria e avrebbe potuto disegnarlo, con precisione, in qualsiasi momento e dovunque: lo faceva, ogni tanto, oziosamente, sul retro di lettere inutili, o sull’ultima pagina di libri che non finiva.

Disponeva di ricchezze sorprendenti, e spenderle per scopi imperscrutabili non era l’ultimo dei suoi diletti. Quando firmava gli assegni per gli uomini che, in ogni parte del mondo, occupavano il loro tempo a chiedere notizie di un circuito dimenticato, amava farlo sotto gli occhi, indispettiti, dei suoi consulenti finanziari. Uno di loro, un olandese, le chiese il permesso di riassumerle, un giorno, le spese a cui si era esposta per finanziare l’insolita ricerca.

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Inventario della casa di campagna

La felicità delle cicale, di cui Anacreonte era giustamente invidioso, riposa principalmente sulla stabilità raggiunta dai loro pubblici ordinamenti: in virtù della pace politica che regna da tempo immemorabile, questi cittadini possono dedicare al canto tutta la loro breve vita, senza distrarsi nelle rivoluzioni. Il governo della loro società ha per essi la stessa necessità delle leggi fisiologiche: come a nessuno di noi verrebbe in mente di far una congiura contro la tirannia del cuore che ci impone il suo ritmo, così non accade che in mezzo al popolo delle cicale sorga un apostolo a predicar come ideale di vita la silenziosa disciplina del formicaio. Le cicale sono ormai, in quanto a politica, al di là del progresso: si sono liberate in eterno da questa ansiosa febbre di crescenza che gli uomini chiamano storia.

Ma forse tutti gli insetti hanno raggiunto, nell’interno del gruppo sociale, questa beata maturità. Da diecine di millenni le api stanno contente alla dura regola del loro convento; ma non meno perfetto le farfalle trovano per sé quel loro regime di vagabonda anarchia che consente a ciascuna di esse di riprendere ogni mattina, senza comitiva e senza passaporto, le rotte fantastiche di un cielo senza frontiere.

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Seta

– Non devi avere paura di nulla.

Poiché Baldabiou aveva deciso così, Hervé Joncour ripartì per il Giappone il primo giorno d’ottobre. Varcò il confine francese vicino a Metz, attraversò il Würtemberg e la Baviera, entrò in Austria, raggiunse in treno Vienna e Budapest per poi proseguire fino a Kiev. Percorse a cavallo duemila chilometri di steppa russa, superò gli Urali, entrò in Siberia, viaggio per quaranta giorni fino a raggiungere il lago Bajkal, che la gente del luogo chiamava: il demonio. Ridiscese il corso del fiume Amur, costeggiando il confine cinese fino all’Oceano, e quando arrivò all’Oceano si fermò nel porto di Sabirk per undici giorni, finché una nave di contrabbandieri olandesi non lo portò a Capo Teraya, sulla costa ovest del Giappone. A piedi, percorrendo strade secondarie, attraversò le province di Ishikawa, Toyama, Niigata, entrò in quella di Fukushima e raggiunse la città di Shirakawa, la aggirò sul lato est e aspettò due giorni un uomo vestito di nero che lo bendò e lo portò al villaggio di Hara Kei.

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Il vecchio che leggeva romanzi d’amore

Con le prime ombre della sera si scatenò il diluvio e già dopo pochi minuti era impossibile vedere a un braccio di distanza. Il vecchio si stese nell’amaca aspettando l’arrivo del sonno, cullato dal violento e monocorde mormorio dell’acqua onnipresente.

Antonio José Bolivar Proaño dormiva poco. Al massimo cinque ore per notte, più due alla siesta. Gli bastavano. Il resto del tempo lo dedicava ai romanzi, a divagare sui misteri dell’amore e a immaginare i luoghi dove erano ambientate le storie.

Quando leggeva di città chiamate Parigi, Londra o Ginevra, doveva compiere un enorme sforzo di concentrazione per riuscire a immaginarle, Solo una volta aveva visitato una grande città, Ibarra, di cui ricordava vagamente le strade col selciato, gli isolati di case basse, simili una all’altra, tutte bianche, e la Plaza de Armas piena di gente che passeggiava davanti alla cattedrale.

Era questo il suo maggiore riferimento riguardo al mondo, e quando leggeva le vicende ambientate in città dai nomi seri e lontani, come Praga o Barcellona, gli pareva che Ibarra, col suo nome, non fosse una città adatta ai grandi amori.

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Il ragazzo selvatico

Io non tornavo in montagna da dieci anni. Fino ai venti ci avevo trascorso tutte le mie estati. Da bambino di città, allevato in appartamento, cresciuto in un quartiere in cui non era possibile scendere in cortile o per strada, la montagna aveva rappresentato per me l’idea più assoluta di libertà. Avevo imparato a muovermi lassù con un’iniziale brutalità e poi molta naturalezza, come altri bambini imparano a nuotare perché un adulto li butta in acqua: a otto o nove anni avevo cominciato a calpestare i ghiacciai e a mettere le mani sulla roccia, e presto ero stato molto più a mio agio sui sentieri che per le strade della mia città. Per dieci mesi all’anno mi sentivo costretto in abiti buoni, e in un sistema di autorità e di regole a cui obbedire; in montagna mi sbarazzavo di tutto e liberavo la mia natura. Era una libertà diversa da chi è libero di viaggiare e incontrare persone, o di passare la notte a bere, cantare e corteggiare le donne, o di trovarsi dei compagni con cui salpare per grandi imprese. Tutte libertà che apprezzo, tanto che a vent’anni mi sembrava importante esplorarle a fondo, ma a trenta avevo quasi dimenticato cos’era stare da solo in un bosco, o immergermi in un torrente, o correre sul filo di una cresta dopo cui c’è soltanto cielo. Quelle cose le avevo fatte ed erano i miei ricordi più felici. Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l’esatto contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di ritrovarne una antica e profonda, che sentivo di avere perduto.

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Le otto montagne

Può anche apparirti del tutto diverso, da adulto, un posto che amavi da ragazzino, e rivelarsi una delusione; oppure può ricordarti quello che non sei piú e metterti addosso una gran tristezza. Non è che avessi tutta questa voglia di scoprirlo. Ma c’era quella proprietà che mi spettava e la curiosità ebbe la meglio: andai su alla fine di aprile, da solo, con la macchina di mio padre. Era sera e risalendo la valle riuscivo a vedere soltanto lo spazio illuminato dai fanali. Anche cosí notavo parecchi cambiamenti: i punti in cui la strada era stata rifatta e allargata, le reti di protezione sulle scarpate, le cataste di tronchi abbattuti. Qualcuno si era messo a costruire villette in stile tirolese e qualcun altro a cavare sabbia e ghiaia dal fiume, che era stato arginato con sponde di cemento dove una volta scorreva tra sassi e alberi. Le seconde case buie, gli alberghi chiusi per la bassa stagione o per sempre, le ruspe immobili e escavatori con il braccio piantato per terra davano ai paesi un aspetto di decadenza industriale, come quei cantieri abbandonati a metà per fallimento.

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Lo straniero

A parte queste seccature non ero particolarmente infelice. Il vero problema, ancora una volta, era ammazzare il tempo. Ho finito per smettere del tutto di annoiarmi da quando ho imparato a ricordare. A volte mi mettevo a pensare alla mia stanza e, con la fantasia, partivo da un angolo per poi tornarvi elencando mentalmente tutto ciò che trovavo lungo il percorso. All’inizio finiva in fretta. Ma ogni volta che ricominciavo durava un po’ di più. Perché mi ricordavo di ogni mobile, e, per ciascuno di essi, di ogni oggetto che vi si trovava, e per ogni oggetto di tutti i particolari, e per i particolari stessi, un’incrostazione, una crepa o un bordo scheggiato, del colore o della consistenza. Al tempo stesso cercavo di non perdere il filo del mio inventario, di fare un elenco completo. Tanto che dopo qualche settimana riuscivo a passare ore intere semplicemente riepilogando il contenuto della mia stanza. E così, più riflettevo e più cose sconosciute e dimenticate tiravo fuori dalla mia memoria. Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi. Per certi versi, era un vantaggio.

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Il mondo alla fine del mondo

Il Finisterre era una barca dalle linee gentili. Avevo immaginato un cutter all’inglese, con varie vele al terzo e un conveniente numero di fiocchi, ma avevo davanti a me un’imbarcazione con una sola vela arrotolata attorno a un pennone e un controfiocco avvolto allo strallo.

Era dipinto di verde e tra le giunture del legname appariva il calafataggio, collocato da mani diligenti, senza sfilacciature. L’acqua trasparente del golfo lasciava vedere parte della chiglia, libera da scorie, e il capitano Nilssen mi invitò a salire a bordo.

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Il Ciclope

L’ultima sera viene una Tramontana dolce, profumata di assenzio, un vento da regata Che pulisce ii cielo da cima a fondo. Lo pulisce al punto che quando esco a vedere il tramonto l’orizzonte si mostra trasfigurato. Per la prima volta il Sole non si inabissa in mare ma dietro una linea di montagne che non avevo mai visto. La visibilità è di cento miglia almeno, e la Fatamorgana è lì, a portata di mano. A ovest, un susseguirsi di gobbe violacee, come di balena, nuota in un cielo liquido che ha il colore dei melone appena aperto. É già raro vedere la costa del Continente: questa sera l’occhio arriva alla sua colonna vertebrale.

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La voce delle case abbandonate

Le case abbandonate hanno qualcosa che si capisce subito che sono abbandonate, non è solo dall’edera che cerca di entrare, dalle finestre aperte o dai vetri rotti, non tanto dagli scuri con il buco del picchio, non dall’erba alta, dai rovi tutt’attorno e dagli alberi vicini che allungano i rami fino a toccarle; non dal muro screpolato che lascia intravedere sassi e mattoni come fosse lo scheletro, o dalla civetta che vola via dal tetto quando ti vede arrivare, né dalla fila di formiche scure che va avanti e indietro dal davanzale.

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