Primo Maggio – Festa dei lavoratori

I lavoratori che oggi festeggiano il Primo Maggio stanno vivendo la crisi economica in modi molto diversi tra loro. Ci sono quelli — soprattutto dipendenti pubblici stabili, ma non soltanto — che dalla crisi traggono vantaggio: al riparo dalla tempesta, beneficiano della riduzione della rata del mutuo e di molti prezzi al consumo.

Poi ci sono quelli che invece questa crisi la soffrono, eccome. Centinaia di migliaia di titolari di contratti a termine, lavoratori «a progetto», «partite Iva» simulate, che hanno perso o stanno perdendo il posto senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennità di disoccupazione. I dipen­denti di aziendine cui è stato tolto l’appalto di servizi. I lavoratori in Cassa integrazio­ne, che allo scadere della cinquantaduesi­ma settimana perdono il sussidio. Stanno col fiato sospeso anche i lavoratori di azien­de private per i quali fin qui il lavoro non è mancato, ma è pur sempre a rischio.

Per questi milioni di persone che nella crisi rischiano una piccola o grande cata­strofe personale e familiare, il governo si ingegna a prolungare di un poco la Cassa integrazione, oppure ad ampliare, nei limi­ti di un bilancio all’osso, il campo del tratta­mento di disoccupazione, invitando gli im­prenditori a stringere i denti e a rinviare il più possibile i licenziamenti. L’opposizio­ne propone l’allungamento e l’estensione di quei trattamenti a tutti. L’uno e l’altra sperano comunque che, più o meno raffor­zati per far fronte all’emergenza, questi am­mortizzatori bastino per passare la nottata: l’idea bipartisan è che, quando il vento tor­nerà a gonfiare le vele della nostra econo­mia, tutti potranno riprendere il lavoro che hanno dovuto temporaneamente sospen­dere, come i cuochi e gli scudieri del castel­lo della Bella Addormentata finalmente ri­svegliata dal bacio del principe.

Le cose, però, non andranno esattamen­te così. Il vento tornerà — magari anche im­petuosamente — a gonfiare le vele soltan­to di una parte delle nostre imprese. In al­cuni punti del tessuto produttivo sta già in­cominciando ad accadere: per esempio in settori in cui siamo leader mondiali, come quello del mobile, quello delle macchine utensili, o quello delle nuove tecnologie ferroviarie, dove i cinesi stanno investendo un sacco di soldi e si appresta a farlo anche l’America di Obama. La crisi, però, avrà an­che l’effetto di mutare i connotati della no­stra economia: un’altra parte delle nostre imprese resterà a secco. Il problema della protezione dei lavoratori è come guidarli e assisterli nell’itinerario che può condurli a trovare la nuova occupazione là dove si sta spostando la domanda di lavoro.

Spendere in trattamenti di integrazione salariale o di disoccupazione è giusto e ne­cessario, ma può persino avere qualche ef­fetto controproducente, di intorpidimento della ricerca della nuova occupazione. Per uscire bene dalla crisi occorre soprattutto attivare ingenti processi di mobilità intera­ziendale, offrendo ai lavoratori non solo so­stegno del reddito, ma soprattutto servizi di informazione, orientamento, formazio­ne professionale di alta qualità, mirata spe­cificamente agli sbocchi fin d’ora individua­bili, dove necessario anche assistenza e in­centivi alla mobilità geografica. Occorre, per questo, un ordinamento del lavoro in parte nuovo e un sistema di servizi nel mer­cato che consenta ai lavoratori di affronta­re serenamente il processo di aggiustamen­to industriale, non vedendo in esso un ri­schio di catastrofe economica personale, ma al contrario un’occasione in cui si inve­ste nel loro capitale umano, la premessa per una migliore valorizzazione del loro la­voro.

Protagonista di questa trasformazione deve essere la contrattazione fra imprese e sindacati. Il sistema di relazioni industriali deve accantonare per qualche tempo le po­lemiche di questi ultimi mesi e concentra­re tutte le energie e le risorse per dotarsi degli strumenti necessari nel mercato del lavoro. Come è accaduto a Bergamo, dove nei giorni scorsi Cgil, Cisl, Uil e associazio­ni imprenditoriali hanno firmato un accor­do locale che può essere per molti aspetti considerato un modello. Iniziative analo­ghe stanno maturando anche in altre zone del Centro-Nord. Questi accordi territoria­li chiedono spazio e — dove possibile — sostegno pubblico per sperimentare tecni­che e modelli di protezione del lavoro di­versi rispetto al passato. Una cultura indu­striale adatta ai tempi. Qualche cosa di molto diverso dalle politiche del lavoro pu­ramente passive che abbiamo conosciuto finora.

Corriere della Sera – Pietro Ichino

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