Su venti anni di potere, dodici li ho trascorsi senza fissa dimora. Ho abitato di volta in volta i palazzi dei mercanti in Asia, le oneste case greche, le belle ville munite di bagni e stufe dei residenti romani in Gallia, i tuguri, le fattorie. La tenda, quella leggera architettura di tela e di corde, era ancora l’abitazione che preferivo. Non meno varie la navi delle abitazioni; ebbi la mia, provvista di un ginnasio e d’una biblioteca, ma diffidavo troppo di qualsiasi forma di stabilità per legarmi a una dimora, anche se mobile: la barca di piacere d’un ricco siriano, i vascelli d’alto bordo della nostra flotta o il caicco d’un pescatore greco andavano per me egualmente bene. L’unica mia esigenza era la velocità e tutto ciò che la seconda i cavalli migliori, le vetture più molleggiate, i bagagli meno ingombranti, gli abiti, le suppellettili più adatte al clima. Ma la grande risorsa era, innanzi tutto, lo stato perfetto del corpo: una marcia forzata di venti leghe non era niente; una notte insonne la consideravo null’altro che un invito a pensare. Sono pochi gli uomini che amano viaggiare a lungo; è una frattura continua di tutte le abitudini, una smentita inflitta incessantemente a tutti i pregiudizi. Ma io facevo di tutto per non aver alcun pregiudizio, e pochissime abitudini. Apprezzavo la delizia d’un letto soffice, ma anche il contatto, l’odore stesso della terra nuda. Ero avvezzo alla varietà degli alimenti, all’orzo britannico e ai frutti africani. Un giorno, mi capitò di assaggiare perfino la selvaggina semiputrefatta, considerata una ghiottoneria presso certe tribù germaniche: la rigettai, ma l’esperienza fu tentata. Benché nettamente deciso nelle mie preferenze in amore, persino li paventavo la consuetudine. Il mio seguito, che si limitava a persone indispensabili o squisite, mi isolava ben poco dal resto del mondo; vigilai che i miei movimenti restassero liberi, facile l’accesso alla mia persona. Le province, quelle grandi unità ufficiali alle quali io stesso avevo scelto gli emblemi, la Britannia sul suo seggio di rocce, la Dacia con la sua scimitarra, si trasformavano per me nelle foreste di cui avevo cercato l’ombra, nei pozzi ai quali avevo bevuto, negli individui incontrati nelle soste, visi noti, a volte amati. Mi era noto ogni miglio delle nostre strade, forse sono il più bel dono che Roma abbia fatto alla terra. Ma il momento indimenticabile era quello in cui la strada cessava, sul fianco d’una montagna, e di crepaccio in crepaccio, di roccia in roccia, ci s’inerpicava per assistere all’aurora dall’alto d’una cima dei Pirenei o delle Alpi.
Marguerite Yourcenar – Memorie di Adriano