I nostri figli ci guardano

In tempi di passioni tristi e valori deboli, forse è opportuno staccarsi un attimo dalle cronache e chieder­ci come verrà giudicato, fra qualche anno, questo particolare momento del­la nostra vita, pubblica e privata. Non dagli storici, che speriamo abbiano di meglio di cui occuparsi. Ma dai nostri figli. Davve­ro il Paese è quello de­scritto dal profluvio di volgarità che ci inonda ogni giorno? E da una classe politica che appa­re, nel suo complesso, più attenta a rovistare nel letto dell’avversario, piut­tosto che confrontarsi su idee e programmi? Che chiude la Camera per una settimana, perché non ha nulla da fare, ma insegue senza sosta gossip di ogni natura? Oppure dà un’informazione che si di­sputa brandelli delle vite private dei rivali politici e non?

Lo abbiamo già scrit­to: il Paese, per fortuna, è diverso. Molto diverso. Migliore. E non merita af­fatto l’immagine di cui soffre, perché lavora di più e meglio di coloro che, all’estero, ci critica­no con il sopracciglio al­zato. In queste settimane ci siamo occupati, pur­troppo, più di escort e trans, che di imprese e la­voro. Più di cocaina che di riforma universitaria. Le inchieste della magi­stratura vanno seguite con attenzione ed equili­brio, non c’è dubbio. E la stampa deve darne il giu­sto conto (il «Corriere» le ha quasi tutte anticipate). Ma non vanno confuse con il rincorrersi incon­trollato di voci, le più di­sparate, su questo o su quello. Il privato di chi esercita una funzione pubblica, a qualsiasi livel­lo, è necessariamente più limitato di quello di un cittadino qualsiasi. Ma il suo totale annullamento, all’insegna di un’idea gia­cobina della trasparenza, non significa maggiore democrazia, ma babele di sospetti. L’importante è che le scelte private, an­che sessuali, non condi­zionino la libertà di eser­cizio delle funzioni pub­bliche con l’accettazione di compromessi o ricatti. Forse dovremmo tutti fermarci un po’ a riflette­re su come questa stagio­ne del fango, dei dossier e dei veleni, nella quale prosperano voraci pesci di profondità e pericolosi animali del sottobosco, verrà ricordata fra qual­che anno. E domandarci se ci stiamo occupando, con la dovuta determina­zione, dei problemi reali del Paese, della difesa del­le sue istituzioni e dei suoi valori, dell’etica pub­blica e del senso di legali­tà. Oppure se abbiamo perso un po’ tutti la lucidi­tà necessaria per non vive­re inconsapevoli in una società dominata dall’ille­galità diffusa, dal trionfo della volgarità e dallo scarso rispetto del prossi­mo. Chi ci governa ha le sue responsabilità, anche serie, ma pensare che le abbia tutte è superficiale e ingiusto. L’occasione per farlo è la pubblicazione di un li­bro che, a mio parere, an­drebbe letto anche nelle scuole. Lo ha scritto Bene­detta Tobagi, figlia di Wal­ter, giornalista del «Cor­riere della Sera», ucciso dai terroristi rossi quasi trent’anni fa.

S’intitola: «Come mi batte for­te il tuo cuore» (Einaudi). Lo anticipiamo oggi su queste co­lonne. Quando Tobagi fu ucciso, per il coraggio dei suoi scritti a difesa della legalità e dei valori per i quali viviamo, Benedetta aveva appena tre anni. Non l’ha di fatto conosciuto, il padre. Ma lo ha incontrato di nuovo scri­vendone la storia. Ha scoperto tutta la sua profondità umana e professionale, la forza del suo pensiero libero, il significato del­l’esempio, l’attaccamento alla fa­miglia, l’etica personale che do­vrebbe guidare ogni nostro ge­sto quotidiano. Se ognuno di noi svolgesse fino in fondo, co­me hanno fatto Walter e tanti al­tri come lui, il proprio dovere, questa società sarebbe più giu­sta, meno egoista, avrebbe più ri­spetto di sé e dei propri figli. Be­nedetta nel suo libro, ne cita un altro, appena uscito: «Qualun­que cosa succeda» (Sironi edito­re), di Umberto Ambrosoli, fi­glio di Giorgio, il liquidatore del­la Banca Privata Italiana, caduto sotto i colpi di un sicario manda­to da Michele Sindona, trent’an­ni fa. Umberto, quando morì il padre, aveva otto anni. Anche lui, e non solo lui (Mario Calabre­si, per esempio, figlio del com­missario Luigi, ucciso nel ’72) lo ha conosciuto nuovamente rico­struendone la vita professionale. «Papà è stato una persona come tante che ha saputo vivere e di­fendere i valori per lui prioritari. Può non essere un obiettivo faci­le, ma tutti noi possiamo darce­lo, vivendo con responsabilità nei confronti di noi stessi e della società». Umberto Ambrosoli ha scritto anche ieri, su queste colonne di quanto i piccoli esempi quotidiani di legalità siano importanti nella costruzione di un’etica pubblica condivisa. Grazie Umberto, grazie Benedetta. Noi ci auguriamo, leggendo queste pagine così belle e no­bili, di non dover più rivivere gli anni di piombo, anche se ne ve­diamo ripetersi alcuni dei sinto­mi. E immersi nel liquido, a vol­te maleodorante, della nostra contemporaneità, ci domandia­mo, con un senso di angoscia, come ci ricorderanno i nostri fi­gli. E se stiamo facendo di tutto per consegnare loro una società migliore.

Ferruccio de Bortoli – Corriere della Sera – 02/11/2009

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