
A parte queste seccature non ero particolarmente infelice. Il vero problema, ancora una volta, era ammazzare il tempo. Ho finito per smettere del tutto di annoiarmi da quando ho imparato a ricordare. A volte mi mettevo a pensare alla mia stanza e, con la fantasia, partivo da un angolo per poi tornarvi elencando mentalmente tutto ciò che trovavo lungo il percorso. All’inizio finiva in fretta. Ma ogni volta che ricominciavo durava un po’ di più. Perché mi ricordavo di ogni mobile, e, per ciascuno di essi, di ogni oggetto che vi si trovava, e per ogni oggetto di tutti i particolari, e per i particolari stessi, un’incrostazione, una crepa o un bordo scheggiato, del colore o della consistenza. Al tempo stesso cercavo di non perdere il filo del mio inventario, di fare un elenco completo. Tanto che dopo qualche settimana riuscivo a passare ore intere semplicemente riepilogando il contenuto della mia stanza. E così, più riflettevo e più cose sconosciute e dimenticate tiravo fuori dalla mia memoria. Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi. Per certi versi, era un vantaggio.
C’era anche il sonno. All’inizio, dormivo male di notte e per niente di giorno. A poco a poco, le mie notti sono migliorate e sono riuscito a dormire anche di giorno. Posso dire che negli ultimi mesi dormivo dalle sedici alle diciotto ore al giorno. Quindi mi restavano sei ore da ammazzare con i pasti, i bisogni naturali, i ricordi e la storia del cecoslovacco.
Tra il pagliericcio e l’asse della branda, infatti, avevo trovato un vecchio pezzo di giornale mezzo incollato alla tela, ingiallito e trasparente. Riportava un fatto di cronaca del quale mancava l’inizio ma che doveva essere avvenuto in Cecoslovacchia. Un uomo era partito da un villaggio ceco per fare fortuna. Dopo venticinque anni, arricchitosi, vi era tornato con una moglie e un figlio piccolo. Sua madre e sua sorella gestivano una locanda nel villaggio. Per far loro una sorpresa, l’uomo aveva lasciato la moglie e il figlio in un’altra locanda ed era andato dalla madre, che vedendolo entrare non l’aveva riconosciuto. Per scherzo, gli era venuta l’idea di affittare una stanza. Aveva mostrato il denaro che aveva con sé. Durante la notte, la madre e la sorella l’avevano assassinato a colpi di martello per derubarlo e avevano buttato il suo corpo nel fiume. Al mattino, era arrivata la moglie e, senza volerlo, aveva rivelato l’identità del viaggiatore. La madre si era impiccata. La figlia si era gettata in un pozzo. Quella storia l’avrò letta migliaia di volte. Da un lato era inverosimile. Dall’altro era naturale. Comunque, trovavo che il viaggiatore se lo fosse un po’ meritato e che non si debba mai scherzare.
E così, tra le ore di sonno, i ricordi, la lettura di quel fatto di cronaca e l’alternarsi di luce e ombra, il tempo è passato. Ovviamente avevo letto che in prigione si finisce per perdere la nozione del tempo. Ma non aveva molto senso per me. Non mi ero reso conto di quanto i giorni potessero essere al tempo stesso lunghi e brevi. Lunghi da vivere, senza dubbio, ma così dilatati da finire per riversarsi gli uni negli altri. Sino a perdervi il proprio nome. Ieri e domani erano le uniche parole che conservassero un senso per me.
Un giorno, quando il secondino mi ha detto che ero lì da cinque mesi, gli ho creduto ma non l’ho capito. Per me era incessantemente lo stesso giorno quello che dilagava nella mia cella, e la stessa meta quella che perseguivo. Quel giorno, quando il secondino è andato via, mi sono specchiato nella gavetta di ferro. Mi è parso che la mia immagine restasse seria anche se cercavo di sorriderle. L’ho scossa davanti a me. Ho sorriso e lei ha mantenuto la stessa aria severa e triste. Il sole era tramontato ed era l’ora di cui non voglio parlare, l’ora senza nome in cui i rumori della sera salivano da tutti i piani della prigione in un corteo di silenzio. Mi sono avvicinato alla finestrella e, nell’ultima luce, ho guardato di nuovo la mia immagine. Era ancora seria, e perché stupirsi, visto che in quel momento lo ero anch’io? Ma al tempo stesso, e per la prima volta da mesi, ho udito distintamente il suono della mia voce. L’ho riconosciuta per quella che ormai da lunghi giorni mi risuonava alle orecchie, e ho capito che in tutto quel tempo avevo parlato da solo. Allora ho ricordato le parole dell’infermiera al funerale di mamma. No, non c’era via d’uscita, e nessuno può capire cosa sono le sere in prigione.
Albert Camus – Lo straniero
Pubblicato nel 1942, ”Lo straniero” è un classico della letteratura contemporanea: protagonista è Meursault, un modesto impiegato che vive ad Algeri in uno stato di indifferenza, di estraneità a se stesso e al mondo. Un giorno, dopo un litigio, inesplicabilmente Meursault uccide un arabo. Viene arrestato e si consegna, del tutto impassibile, alle inevitabili conseguenze del fatto – il processo e la condanna a morte – senza cercare giustificazioni, difese o menzogne. Meursault è un eroe ”assurdo”, e la sua lucida coscienza del reale gli permette di giungere attraverso una logica esasperata alla verità di essere e di sentire.