
Le case abbandonate hanno qualcosa che si capisce subito che sono abbandonate, non è solo dall’edera che cerca di entrare, dalle finestre aperte o dai vetri rotti, non tanto dagli scuri con il buco del picchio, non dall’erba alta, dai rovi tutt’attorno e dagli alberi vicini che allungano i rami fino a toccarle; non dal muro screpolato che lascia intravedere sassi e mattoni come fosse lo scheletro, o dalla civetta che vola via dal tetto quando ti vede arrivare, né dalla fila di formiche scure che va avanti e indietro dal davanzale.
Le case si capisce subito che sono abbandonate quando sembrano finalmente stare bene con tutto quello che c’è intorno, e prendono i colori dell’erba, della pioggia, del vento, delle cortecce, dei sassi, dei rovi e della terra; quando sembrano ancora più leggere, anche se a mettere radici imparano dagli alberi. Le case abbandonate non hanno fondamenta, sono appoggiate alla terra e le radici che mettono sono sassi che, a poco a poco, sprofondano, sono muri che si assestano e si fanno i loro spazi, ferri che arrugginiscono e trasudano acqua scura che scivola e colora, legni dalle vene aperte sospesi in equilibrio precario, e malta, calce e sabbia a farsi impasto di polvere da tenere fermo il vento. Le case abbandonate finalmente spalancano le porte, aprono gli scuri e le finestre, fanno entrare l’aria, le nuvole e le erbe rampicanti. Le case abbandonate si fanno piovere e nevicare dentro, hanno i capelli grigi di pietre o rossi di coppi, i nodi sono gli ingorghi delle foglie e i nidi degli uccelli perlustrati da cornacchie. La testa ha il cervello nel solaio, magazzino del ricordo, dove vola la polvere impazzita che si vede tra la luce. Nelle camere c’è il cuore, la paura della notte, e la pancia e giù in cucina da tenere sempre al caldo con il fuoco. Nel soggiorno c’è il fegato, zona fredda e dolorosa, zona acida del bisbiglio che ha bisogno d’erbe scure per venire depurata, E le gambe sono corte, hanno subito i piedi sottoterra, è per questo che non corrono ma si muovono lente, molto poco, molto lente, preferiscono aspettare. Aspettare e raccontare.
Tutto questo non è subito, che le case abbandonate iniziano a star bene con quello che hanno attorno solo dopo un periodo di tristezza in cui sembrano soltanto case vuote in attesa di un ritorno. Succede appena dopo l’abbandono, quando le cose aspettano ancora qualcuno che le sposti, le tocchi e le guardi; le porte e le finestre qualcuno ad aprirle e a chiuderle, il fuoco nel camino e nelle stufe a riscaldare ancora, le luci accendersi e poi spegnersi, i vestiti a infilarsi addosso, il silenzio ad aspettare i passi, il brusio delle voci, gli specchi a specchiare i corpi, i vetri ad appannarsi di fiati, riverberare le luci. C’è un silenzio fermo, ricamato da tanti piccoli rumori, tutto è lì che ancora aspetta chi abitava la casa. Hanno pazienza le cose delle case abbandonate ma poi si stancano; le porte, le finestre, le stufe, i vestiti, gli oggetti, i cassetti, gli specchi si stancano e cominciano a parlare con quella loro voce che non hanno mai tirato fuori né creduto di avere, voce che segue un alfabeto strano, un alfabeto muto, quello del silenzio. Ecco, forse è cominciato proprio da una porta e il suo silenzio, Una porta chiusa con tre giri di filo di ferro, che quando ci sono passato accanto ha chiesto di parlare. Io ero lì, e avevo le orecchie apposta per sentire.
Ho fatto tre passi, sono entrato, e lei ha chiuso subito la bocca con me dentro, mi ha mangiato, ma non ho preso paura, mi è venuto naturale guardare e restare in silenzio, come un senso di soggezione di chi entra a disturbare. Ma il mio silenzio era più debole di quello della casa, tanto più debole che mi è venuto via il respiro.
E mi sentivo come chi fa qualcosa di proibito e crede di farlo di nascosto ma poi sente che gli occhi ce li hanno anche le cose, i pavimenti, i muri, i mobili e i vestiti, lo sente anche dall’aria che si fa più Pesante, si appesantisce di tutti quegli sguardi accavallati e messi insieme; oppure le cose sono piene degli sguardi di chi ci ha abitato per così tanti anni che poi, quando tutti sono andati e le hanno lasciate lì da sole, le cose è come se avessero trattenuto un po’ degli occhi, sguardi e riflessi di chi dalle porte è passato e ripassato, di chi ha consumato con le scarpe di terra il pavimento, di chi ha trascinato la legna fino al fuoco, chi è entrato felice dalla porta, chi ha pianto seduto sulla sedia, chi si è spogliata nel letto, chi è nato nel letto bagnato di acqua e di sangue e chi è morto, volato dalla casa al cielo passando per il tetto, con le scarpe slacciate, gli specchi coperti e un soldo d’argento nella bocca.
Aggrediscono subito gli sguardi, come cani da guardia alla casa che scacciano quello che mi sento appena dentro, un intruso a dar fastidio, uno che non c’entra in tutti quegli sguardi, quelle cose e quella gente, uno che non c’entra niente o forse è arrivato troppo tardi. Si, forse e l’imbarazzo di essere arrivato solo adesso; un tempo avrei bussato, avrei chiesto permesso e mi avrebbero guardato di soppiatto come si guarda un forestiero che porta dentro la foresta, o forse semplicemente sarei rimasto fuori dalla porta, che le case quando non sono abbandonate regalano l’illusione che le cose siano li, chiuse dentro la porta e nelle stanze solo per chi le abita; bisogna entrare in una casa abbandonata per accorgersi che non è vero; le cose ci sopravvivono e restano ferme come le abbiamo messe ad aspettare che qualcuno le prenda o che qualcosa le rompa, oppure semplicemente ferme ad aspettare niente; perché è solo nostra l’attesa, è solo nostro il dividere il tempo, l`aspettarlo o il rimpiangerlo. Alle case e alle cose basta restare ferme, è solo nostra l’ansia del passare del tempo.
Il tempo delle case abbandonate è un tempo che non riusciamo a vedere né a misurare; un tempo che cammina con un passo lento, monotono e contrario. Io non sapevo che le case abbandonate avessero dentro un tempo tutto diverso da quello che c’è fuori. Hanno il tempo passato assoluto, basta aprire la porta e ci sei dentro. È un passato che non scorre più come il tempo fuori, un passato fermato lì per sempre, tempo infinito in cui tutto è passato, sono passati tutti; da quando l’hanno costruita la casa, e lei conserva ancora, in qualche angolo buio e nascosto, l’eco della prima voce.
Eppure anche le case abbandonate sembrano aspettare qualcosa, ma non si impara subito, ci vuole tempo ed esercizio per capire che loro aspettano soltanto di ritornare terra. È a noi che sembra un ritorno fermo, talmente lento che è simile al niente; il tornare terra delle case abbandonate è un passare di tempo che noi facciamo fatica a pensare perchè è molto più lungo di una vita intera.
Le cose sono lì, gli uomini sono già soffiati via, eppure sembra da poco; lo si vede dal tavolo che è ancora apparecchiato, dagli armadi aperti e i comodini con le foto, dai piatti e le posate nel secchiaio, le pentole chiodate e il camino che sparge ancora odor di fumo come se fosse appena stato spento un fuoco. Lo si capisce dai letti, con i segni dei corpi, i vestiti appoggiati alla testiera, altri piegati e pronti da mettere in lavanda e naftalina, le scarpe nascoste nell’angolo lontano.
Restano le cose a parlare per gli uomini, le cose e i loro occhi a guardare stupiti chi entra; ma alle cose bisogna trovarci una bocca, oppure iniziano tutto insieme a raccontare che riempiono la testa, comunque hanno un loro linguaggio che prima di capirlo bisogna entrarci molto in confidenza. Per le parole delle cose occorrono orecchie allenate, ma non è difficile. La partenza è sempre solo il silenzio, poi iniziano loro quando ne hanno voglia. Oppure quando si fidano.
Lo riesci a capire quando si fidano perchè è in quel momento che si alza al massimo il volume del silenzio fino quasi a scoppiare, fare un verso, crepare i vetri sottili delle finestre in legno, si alza fino a che non riesce ad arrivare oltre, fino a dopo il massimo del volume del silenzio, fino a distorcere il silenzio, quando inizi a sentire camminare i ragni, le file di formiche che vanno dalla finestra al lavandino, passare sui mattoni le zampe gelide dei topi, rosicchiare i tarli dentro i travi, strisciare le lucertole sopra i davanzali.
Ecco, allora vuol dire che alle cose e ripresa la voglia di parlare, ognuna con la propria voce, quelle piccole si fanno addirittura prendere e toccare; ecco, allora ricomincia il suono della casa abbandonata, ricomincia dai rumori più sottili, e poi quelli più forti, fino a tutta una specie di concerto che ho interrotto quando sono entrato; vuol dire che adesso si fidano, vuol dire che, passato lo stupore del mio ingresso, ritornano a muoversi e a parlare con quel loro alfabeto strano come se non ci fosse nessuno.
Mario Ferraguti – La voce delle case abbandonate