La mia poesia e la mia vita sono trascorse come un fiume americano, come un torrente d’acque del Cile, nate nella profondità segreta delle montagne australi, dirigendo senza posa il movimento delle loro correnti verso uno sbocco marino. La mia poesia non ha rifiutato niente di quanto ha potuto trascinare nel suo corso; ha accettato la passione, ha sviluppato il mistero, si è aperta il passo fra i cuori del popolo.
Mi è toccato soffrire e lottare, amare e cantare; nella spartizione del mondo ho conosciuto il trionfo e la sconfitta, ho provato il gusto del pane e quello del sangue. Che cosa può volere di più un poeta? E tutte le alternative, dal pianto ai baci, dalla solitudine al popolo, sono presenti e vivono nella mia poesia, e in essa agiscono, perchè ho vissuto per la mia poesia, e la mia poesia ha sostenuto le mie lotte. E se ho ottenuto molti premi, premi fugaci come farfalle di polline fuggevole, ho ottenuto un premio ben più grande, un premio che molti disprezzano ma che in realtà è per molti irraggiungibile. Attraverso una dura lezione di estetica e di ricerca, attraverso i labirinti della poesia scritta, sono riuscito a essere poeta del mio popolo. E’ questo il mio premio, non i libri e le poesie tradotte o i libri scritti per descrivere o sezionare le mie parole. Il mio premio è quel momento grave della mia vita nel fondo del carbone di Lota, in pieno sole nella salina riarsa, dal pozzo della miniera è uscito un uomo come se venisse su dall’inferno, con il viso stravolto dalla fatica terribile, con gli occhi arrossati dalla polvere e, porgendomi la mano indurita, quella mano che reca tutta la mappa della pampa nei suoi calli e nelle sue rughe, mi ha detto, con gli occhi brillanti: “Ti conoscevo da molto tempo, fratello”. Ecco l’alloro della mia poesia, quel buco nella pampa terribile, da cui esce un operaio cui il vento, la notte e le stelle del Cile hanno detto molte volte “non sei solo; c’è un poeta che pensa ai tuoi dolori”.
Pablo Neruda – Confesso che ho vissuto