Mai come in questo momento si parla tanto di giovani e così poco con i giovani.
Mai come in questa stagione culturale si racconta tanto l’adolescenza (appartengo ai colpevoli, sia come scrittore sia come insegnante) e così poco si sa leggerla in questa contingenza storico-culturale.
La contraddizione è soltanto apparente. Ogni cultura si concentra su ciò che non mette più a fuoco e sta perdendo, e sulle parole che nominano quelle cose. A parte cuore, amore, dolore che attraversano tutte le epoche, perché non se ne ha e sa mai abbastanza di quelle tre cose lì, ogni epoca ha le sue parole.
Una parola perduta e per questo oggi abusata è «adolescenza», perché la vita quando perde qualcosa si concentra come un’ossessa sulle parole che risvegliano la nostalgia per ciò che si è perduto. Il nostro non è un Paese per giovani e quindi non si parla d’altro. Abbiamo «adultizzato» (o adulterato?) l’adolescenza e «adolescentizzato» l’età adulta. Per questo la vita grida attraverso di noi ciò che le spetta di diritto, che ogni età realizzi la tensione che le è propria, senza essere soffocata, saltata, pervertita: adulti che fanno gli adolescenti perché non sono stati adolescenti, e quindi non sanno come si faccia a essere adulti; adolescenti disillusi come gli adulti, bruciata la loro capacità somma: creare.