
Poiché se l’era promesso, Elizaveta Seller, vedova Zarubin, cercò per anni un circuito di diciotto curve, costruito nel nulla e probabilmente mai usato. Lo conosceva a memoria e avrebbe potuto disegnarlo, con precisione, in qualsiasi momento e dovunque: lo faceva, ogni tanto, oziosamente, sul retro di lettere inutili, o sull’ultima pagina di libri che non finiva.
Disponeva di ricchezze sorprendenti, e spenderle per scopi imperscrutabili non era l’ultimo dei suoi diletti. Quando firmava gli assegni per gli uomini che, in ogni parte del mondo, occupavano il loro tempo a chiedere notizie di un circuito dimenticato, amava farlo sotto gli occhi, indispettiti, dei suoi consulenti finanziari. Uno di loro, un olandese, le chiese il permesso di riassumerle, un giorno, le spese a cui si era esposta per finanziare l’insolita ricerca.
— Permesso accordato —, disse Elizaveta Seller.
L’olandese aprì una cartellina e lesse una cifra che aveva una sua solennità.
Elizaveta Seller non fece una piega. Chiese all’olandese se era così cortese da calcolare per quanti anni ancora avrebbe potuto andare avanti a cercare, prima di ritrovarsi in miseria.
— Non è questo il punto —, obbiettò l’olandese.
— Lei si limiti a calcolare, per favore.
Risultò che, approssimativamente, aveva ancora davanti qualcosa come centottantadue anni.
— Lo troveremo prima —, disse Elizaveta Seller, convinta.
Sul fatto che il circuito esistesse davvero, non aveva dubbi. Aveva conosciuto Ultimo e il suo mondo abbastanza per sapere che quella gente aveva la pazienza dell’insetto e la determinazione dell’uccello rapace. Non avevano ricevuto in eredità il lusso del dubbio, e da generazioni nessuno aveva mai immaginato che in una vita potesse starci altro che una vita sola: e una sola follia. Con premesse del genere, se solo avevi del talento e la fortuna di campare, quello che volevi fare l’avresti fatto. Da quando Florence le aveva porto quel disegno, piegato in otto, aveva capito che non era il sogno passeggero di un ragazzo, quello di Ultimo, ma la pacata decisione di un adulto. Gente che per secoli aveva avuto la calma di dissodare la terra, ogni anno, senza dubitare della fedeltà delle stagioni, non si sarebbe mai sognata di disegnare qualcosa per il gusto di farlo, o per la debolezza, a loro estranea, di giocare con l’immaginazione. Ne era sicura: prima Ultimo aveva costruito il circuito, poi l’aveva disegnato. Era anche sicura di un’altra cosa: l’aveva disegnato per lei.
Tutto quel che occorreva fare era avere pazienza, e cercare. Lo fece prima negli Stati Uniti, perché le era sembrata la cosa più logica. Poi sguinzagliò i suoi uomini in Sud America e in Europa. Un anno, cedendo a una ispirazione inutilmente romantica, mandò un emissario in Russia. Ogni tanto le arrivavano dei resoconti dettagliati di circuiti strani e assurdi, mezzo distrutti, completamente dimenticati o cancellati dalle periferie anonime di grandi città. Lei studiava ogni caso, con cura e perfino con curiosità. Scoprì, come spesso accade, che per quanto uno abbia un’intuizione strampalata e geniale, c’è sempre un bel numero di persone, in giro per il mondo, che l’hanno avuta tale e quale. Era perfino possibile trovare qualcuno che ne aveva messo a punto una qualche variante anche più sorprendente. In Colombia le segnalarono un circuito su cui, dicevano, aveva corso anche Nuvolari. Adesso gli avevano versato sopra un lago artificiale. Riposava a una ventina di metri sott’acqua, abitato dai pesci. La divertì l’idea di mandare dei sommozzatori, a spiarlo, e farne un disegno. Non aveva diciotto curve, e, paragonato al tracciato di Ultimo, era una cosa da ragazzi.
— Lasciatelo là sotto —, disse.
Non cercava con l’ossessione febbricitante di un collezionista, ma con la cura tranquilla di un artigiano intento a rimettere insieme i cocci di un vaso rotto. Non aveva fretta, non aveva rivali, e le piaceva il gesto di cercare. Era un modo di stare con Ultimo, e per tutti quegli anni fu il solo che la sorte avesse tenuto in serbo per lei. Un’altra persona, forse, si sarebbe ribellata, e avrebbe ceduto alla tentazione di pretendere la realtà di un fatto qualunque al posto di quella inconsistente liturgia dell’assenza. Ma neanche per un attimo la sfiorò l’idea che forse sarebbe stato più facile trovare Ultimo che non il circuito. Molti anni prima lei gli aveva scritto in un diario quello che si sarebbe aspettata da lui, e lui l’aveva fatto. Adesso toccava a lei. C’era un disegno, e si trattava solo di fare quello che c’era scritto lì. Non è importante se le persone, alla fine, non riescono a trovarsi. Non tradirsi, quello è importante.
Elizaveta Seller cercò per diciannove anni, tre mesi e dodici giorni. Poi un dispaccio dall’Inghilterra le comunicò che un circuito di diciotto curve, in tutto corrispondente al disegno da lei fornito, giaceva semidistrutto tra le paludi di Sinnington, un piccolo centro dello Yorkshire. C’erano allegate delle foto aeree. Elizaveta non le volle nemmeno guardare. Partì il giorno stesso, con sette bauli, tre persone di servitù, una bellissima ragazza che si chiamava Aurora, e un ragazzino egiziano. Alla governante della sua casa di campagna disse che non sapeva quando sarebbe tornata. Ma si raccomandò che ogni giorno ci fossero fiori freschi nei vasi, e che i sentieri del giardino fossero tenuti puliti dalle foglie morte. Partì senza voltarsi. Aveva sessantasette anni, perché in tutti quegli anni molto aveva vissuto, e non era morta mai.
Il suo agente inglese era un omino magro magro che si chiamava Strauss. Da giovane, dopo la guerra, aveva messo su una società di investigazioni con un compagno di scuola, un tipo belloccio e non troppo acuto. Dopo qualche anno il compagno di scuola se mera sparito portandosi via le due cose più vacue dell’azienda: la segretaria e la cassa. Così adesso sulla porta dell’agenzia c’era solo un nome. Strauss.
L’Inghilterra pullulava di circuiti automobilistici perché i severi limiti di velocità avevano da sempre scoraggiato le gare su strada. Per Strauss, così, s’era trattato di andare in giro per tutto il paese, incontrando la gente più stramba, e sorbendosi infinite perlustrazioni su tracciati che non gli dicevano nulla. Lui non guidava e, di solito, sulle auto vomitava.
Tanto per non perdere tempo, si era abituato a chiarire, preliminarmente, che gli interessavano solo circuiti con diciotto curve.
— Lei si confonde con il golf —, gli disse una volta un driver scozzese, visibilmente omosessuale. — E si tratta di buche, non curve —, aveva aggiunto.
Alcuni circuiti erano tuttora in funzione, molti altri erano decaduti a parcheggi o discariche. Spesso erano giusto un ricordo, sostituito da palazzine popolari piene di pendolari e bambini da cambiare. Anche quando era inutile, Strauss prendeva nota e mandava accurati report all’indirizzo romano di Elizaveta Seller. Non le aveva mai parlato, direttamente, e non aveva la più pallida idea del perché una signora russa avesse un bisogno così impellente di trovare un circuito automobilistico. Dato che disponeva di una fantasia misurata, si era immaginato urn’eccentrica miliardaria che voleva mettersi nel business delle corse. Ma una sera, che era un po’ ubriaco, gli venne da pensare a un artista, probabilmente d’avanguardia, che scolpiva circuiti, come se fossero statue. Non aveva un’idea precisa, peraltro, di cosa significasse la parola avanguardia.
A Sinnington ci arrivò per caso, seguendo il suggerimento, apparentemente inutile, di un tassista di Liverpool, Il tassista parlava molto e aveva voluto sapere da lui che mestiere facesse.
— Ho un’agenzia investigativa —, aveva detto Strauss.
— Fantastico! Sta cercando un assassino?
— No, un circuito.
Venne fuori che il tassista aveva fatto la guerra in aviazione. Un giorno di virile nostalgia era tornato alla pista dov’era decollato tante volte negli anni in cui era un eroe e non un fallito. La pista C’era ancora, ma tutto il resto era molto cambiato. Ci avevano fatto una cosa senza senso, che però assomigliava a un circuito. Strauss aveva già setacciato tutto il Regno Unito, e non sapeva più cosa inventarsi per giustificare le note spese che mandava regolarmente in Italia. Si fece dare il nome del posto.
Quando arrivò a Sinnington pioveva e tirava un vento da nord che non perdonava. Salì su una collinetta e diede un’occhiata intorno. Si capiva poco, ma indubbiamente qualche segno di un circuito c’era. Chiese in paese, se ne sapevano qualcosa. Da quelle parti la gente non ama chiacchierare, e Strauss aveva addosso un’inevitabile aria da sbirro. Ma qualcuno lasciò cadere lì che effettivamente un pazzo c’era stato, anni prima, che aveva comprato l’aeroporto e ne aveva fatto qualcos altro. Strauss chiese se si ricordavano il nome del pazzo. Uno disse che era un italiano.
— Si chiamava Primo, o qualcosa del genere —, disse, senza convinzione.
Alessandro Baricco – Questa storia
Il romanzo racconta la vita di Ultimo Parri, che il lettore incontra bambino in una campagna del Nord Italia all’inizio del Novecento e segue in luoghi e vicende diversi fino agli anni Sessanta. Il destino di Ultimo si svolge e si compie all’interno di una narrazione a più voci. La compongono il rumoroso arrivo delle prime automobili, la passione per i motori e per le gare, un singolare rapporto padre-figlio, atroci scorci della Grande Guerra, una storia d’amore che non inizia e non finisce e si alimenta di segni e di tracce. Il romanzo, che utilizza registri stilistici diversi, è percorso da un senso di sospensione, stupefazione e sgomento.