Le otto montagne

Può anche apparirti del tutto diverso, da adulto, un posto che amavi da ragazzino, e rivelarsi una delusione; oppure può ricordarti quello che non sei piú e metterti addosso una gran tristezza. Non è che avessi tutta questa voglia di scoprirlo. Ma c’era quella proprietà che mi spettava e la curiosità ebbe la meglio: andai su alla fine di aprile, da solo, con la macchina di mio padre. Era sera e risalendo la valle riuscivo a vedere soltanto lo spazio illuminato dai fanali. Anche cosí notavo parecchi cambiamenti: i punti in cui la strada era stata rifatta e allargata, le reti di protezione sulle scarpate, le cataste di tronchi abbattuti. Qualcuno si era messo a costruire villette in stile tirolese e qualcun altro a cavare sabbia e ghiaia dal fiume, che era stato arginato con sponde di cemento dove una volta scorreva tra sassi e alberi. Le seconde case buie, gli alberghi chiusi per la bassa stagione o per sempre, le ruspe immobili e escavatori con il braccio piantato per terra davano ai paesi un aspetto di decadenza industriale, come quei cantieri abbandonati a metà per fallimento.

Poi, mentre mi stavo facendo deprimere da quelle scoperte, qualcosa attirò la mia attenzione e mi chinai verso il parabrezza per guardare in su. Nel cielo notturno delle forme bianche mandavano una specie di chiarore. lmpiegai un momento a capire che non erano nuvole: erano montagne ancora coperte di neve. Avrei dovuto aspettarmelo, in aprile. Ma in città la primavera era inoltrata e io non ero piú abituato a sapere che andando in alto si va indietro con le stagioni. La neve lassú mi consolò dalle miserie del fondovalle.

Subito dopo mi accorsi di avere appena ripetuto un gesto tipico di mio padre. Quante volte l’avevo visto, mentre guidava, chinarsi in avanti e alzare gli occhi al cielo? Per controllare il tempo o studiare il versante di una montagna o solo ammirarne la forma mentre passavamo. Teneva le mani alte sul volante e ci appoggiava la tempia sopra. Cosí lo ripetei di nuovo, quel gesto, questa volta con attenzione, immaginando di essere mio padre a quarant’anni e aver appena imboccato la valle, con una moglie seduta accanto e un figlio sul sedile posteriore, in cerca di un posto buono per tutti e tre. Immaginai mio figlio che dormiva. Mia moglie mi indicava i paesi e le case e io fingevo di darle ascolto. Ma poi, appena lei si voltava, mi sporgevo in avanti e guardavo in su, obbedendo al potente richiamo delle cime. Piú erano incombenti e minacciose e piú mi piacevano. La neve là in alto valeva come la miglior promessa. Si, forse su quella montagna c’era un buon posto per noi.

La stradina che saliva a Grana era stata asfaltata, ma per il resto aveva ragione mia madre, sembrava che non fosse cambiato proprio niente. I ruderi erano sempre lí, e cosí le stalle, i fienili e i mucchi di letame. Lasciai la macchina dove ricordavo ed entrai a piedi nel paese buio, mi feci guidare dallo scroscio dell’abbeveratoio, nell’oscurità ritrovai le scale, la porta di casa, la grossa chiave di ferro nella toppa. Dentro mi accolse il vecchio odore di umidità e di fumo. In cucina aprii lo sportello della stufa e trovai un mucchietto di braci ancora incandescenti: ci buttai la legna secca posata lí accanto e poi soffiai finché il fuoco non divampò di nuovo.

Paolo Cognetti – Le otto montagne

La storia di Pietro, del suo amico Bruno e del loro amore per la montagna. Una storia di amicizia tra due ragazzi – e poi due uomini – cosí diversi da assomigliarsi, un viaggio avventuroso e spirituale fatto di fughe e tentativi di ritorno, alla continua ricerca di una strada per riconoscersi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: